Cataldo Portacci, Maestro d’ascia, autore di "Una città e i suoi mari. Taranto tra storia e memoria. Quaderni di memorie tarantine", parla del libro Nei Mari di Taranto di Giacinto Peluso come di uno straordinario repertorio delle ricchezze del nostro mare e delle tradizioni di pesca tarantina. Riportiamo una sintesi del prezioso omaggio
A distanza di circa 20 anni dalla pubblicazione della prima edizione, oggi questa opera pregevole rappresenta un punto di riferimento storico culturale, valido per lo sviluppo eco-compatibile e la rinascita produttiva dei Nostri Mari ed in particolare per il recupero del Mar Piccolo e dell’Isola Madre Città Vecchia.
Nel corso di molti anni l’inquinamento dei Nostri Mari, causato dallo sviluppo distorto della grande industria, ha impoverito e ridotto al minimo l’attività della pesca artigianale. La così detta globalizzazione ha modificato le nostre abitudini alimentari tradizionali sino nel quotidiano, attraverso il consumo di prodotti ittici allevati lungo i litorali marini in modo intensivo e alimentati con mangimi artificiali. Sulle nostre tavole ormai sono abituali le confezioni di pesce congelato pescato con pescherecci oceanici di alto mare provenienti da diverse zone del pianeta. Numerose specie di pesci e molluschi descritti nella pubblicazione di Peluso con passione e competenza culturale sono dei veri e propri tesori dei Nostri Mari e spesso appartengono solo al mondo dei ricordi. Tra queste possiamo annoverare “paricédde” (Pinna nobilis), cozze pelose (Modiolus barbatus), ostriche (Ostrea edulis).
La pesca ai cefali era praticata durante il periodo primaverile-estivo. I cefali erano catturati con diversi attrezzi di pesca attraverso il metodo dell’”incannata”, reti da posta, con la lenza detta a “tògne” e nasse nelle ore diurne, mentre nelle ore notture si utilizzava la fiocina detta “a jàcche” illuminata da lampade a petrolio. I pescatori che si dedicavano alla pesca dei cefali con la lenza erano chiamati “cefàlari”. Essi, dotati di piccole imbarcazioni, pescavano in zone di mare dette le “pròve”. Tali zone erano situate nelle vicinanze delle sorgenti sottomarine di acqua dolce (citri) e alle foci dei numerosi corsi d’acqua immissari del Mar Piccolo. Per questo tipo di pesca si usava come esca la così detta “ngolatòre”, costituita da un impasto di pane duro e avanzi di minestre prelevate dalle cucine di bordo di alcune navi o dai ristoranti. Questo impasto era contenuto in un recipiente di terra cotta e condita con gli odori della ricotta forte pugliese. La specie di cefali dette le “capòzze”, per le dimensioni del capo relativamente più grande rispetto alle altre, era preferita per il sapore pregiato delle carni. I cefali pescati con il metodo della “ngolatòre” potevano raggiungere anche il chilogrammo.
Una metologia di pesca tipicamente tarantina consisteva nell’immersione, a bassa profondità, di un simulacro di cefalo “capozza” femmina, costruito dagli stessi pescatori in legno quercia rovere. Esso era colorato manualmente nei minimi dettagli, tale da renderlo quanto più verosimile all’aspetto del cefalo reale. Il pescatore armato di fiocina, collegata ad una lunga asta di legno, si appostava sul capotesta del tre pali (triangolo) dello stenditoio di mitili (il fusolo). Una volta raggiunta la sommità del tre pali, immergeva in acqua il suddetto simulacro in legno unitamente alla predetta “ngolatòre”; con la fiocina al braccio, non gli restava che attendere che si formasse sotto i suoi piedi un numeroso branco di cefali. Al momento proprizio, con grande prontezza di riflessi lanciava la fiocina infilzando numerosi esemplari che depositava sulla sua barca poco distante. All’epoca, soprattutto in Mar Piccolo, si catturavano decine di quintali di cefali. Questo tipo di pesca era in grado di generare reddito per numerose famiglie..
Oltre alla pesca diurna con la lenza, veniva praticata la pesca notturna con la fiocina detta “à jàcche”. Durante i mesi primaverili ed autunnali e in assenza del chiarore lunare questo tipo di pesca era praticata con l’ausilio della luce proveniente dalla lampada a retino, alimentata con il petrolio.
Alcuni cefali di piccola taglia, catturati nei pressi delle sorgenti di acqua dolce, erano denominati “pèdaruli”. Con essi le famiglie tarantine preparavano gustose zuppe con pane raffermo fatto in casa, o per fragranti fritture. La cottura di tali pietanze emanava un profumo tipico che pervadeva numerose strade e osterie dell’Isola Madre Città Vecchia.
Sarebbe lungo descrivere tutto il contenuto dell’opera del Professor Peluso. Oggi penso che sia utile valorizzare ulteriormente le opere di questo illustre studioso attraverso iniziative cittadine e con interventi mirati nelle scuole di Taranto. Credo che i tempi siano maturi affinchè la locale commissione per la toponomastica possa giustamente proporre di intolare una strada, una via, anche nella Città Vecchia, in onore dell’illustre Giacinto Peluso.
Si potrebbe installare una lapide in sua memoria in Città Vecchia nei pressi del suo luogo natio. Tale iniziative sarebbero di ulteriore stimolo per un recupero della nostra memoria collettiva che deve essere sempre più legata ai valori della cultura marinara.
Cataldo Portacci