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Le gestione delle risorse del mare

Le gestione delle risorse del mare

L’opinione, assai diffusa per il vero, che le attività maricolturali siano in alternativa concorrenziale a quelle alieutiche, è stata da tempo rivisitata...

L’opinione, assai diffusa per il vero, che le attività maricolturali siano in alternativa concorrenziale a quelle alieutiche, è stata da tempo rivisitata e modificata: pesca e maricoltura si propongono ormai come attività complementari, strategicamente rivolte ad ottimizzare l’utilizzo delle risorse del mare. Comprendere le ragioni che hanno determinato l’affiancarsi di opzioni gestionali certamente distanti sul piano metodologico è possibile se ci si propone di individuare i probabili modelli di riferimento, ed i relativi percorsi evolutivi, delle espressioni più significative della moderna maricoltura: la pescicoltura e la mitilicoltura. L’ipotesi di lavoro che formuliamo (e della quale cercheremo di dimostrare la falsità) è che esistano legami di continuità diretta tra queste moderne attività colturali ed esercizi produttivi, certamente molto arcaici, cui esse sono formalmente riferibili: la pescicoltura d’acqua dolce, praticata in Cina già diversi secoli prima di Cristo, e le peschiere o gli stabulari per ostriche di fattura etrusca o romana, di cui restano tracce in alcune zone d’Italia. Verificheremo, inoltre, se esistano segnali di contiguità culturale all’interno di tali espressioni produttive, ovvero tra queste e la moderna maricoltura.

E’ immediatamente evidente quanto sia semplicistico riferire la genesi dei ricordati modelli primordiali ad un’unica matrice culturale, che si sarebbe evoluta, in una dimensione spazio-temporale, attraverso la definizione di specifiche ipotesi produttive e gestionali e l’affinamento delle rispettive componenti tecnologiche: è certo pretenzioso evocare legami di contiguità tra esperienze produttive che, pur apparentemente simili, sono affatto distanti sul piano della progettualità. La carpicoltura di Fan-Li, un pescicoltore cinese del 500 a.C., ben poco ha a che spartire con le peschiere etrusche: nel primo caso è evidente l’esercizio zootecnico, nel secondo siamo più portati ad apprezzare l’efficacia dell’effetto volano della peschiera, che doveva bilanciare, ma per brevi lassi temporali, l’alea delle attività di pesca.

Il mantenimento in cattività di specie marine a scopo ornamentale, così in voga tra l’aristocrazia romana, che riempie gli occhi e vuota le tasche, per dirla con Varrone, nulla ha in comune con la cura da ragioniere con cui Fan-Li compila il suo preciso conto economico: è lo stesso scrittore latino a rammentarci l’antieconomicità dell’operazione. D’altro canto la moderna pescicoltura marina non appare, al di là della comune motivazione di base (che è produrre reddito d’impresa), in continuità diretta, né sul piano tecnico-gestionale né su quello ideologico-progettuale, con la stagnicoltura cinese e con le peschiere etrusche o romane: l’utilizzo delle peschiere risulta, infatti, strettamente vincolato al fattore "tempo" (l’operazione diventa antieconomica quando si protrae nel tempo) ed al fattore "specie" (l’operazione è economica solo con alcune specie marine, quelle più rustiche), mentre la carpicoltura cinese gioca il proprio successo produttivo quasi esclusivamente sulla meticolosa ricostruzione ambientale, all’interno dell’area individuata, dello stagno naturale.

La pescicoltura marina, al contrario, pone due precise ed ineludibili condizioni-base cui ottemperare per garantire la redditività dell’investimento: la corretta individuazione delle specie allevabili e la semplificazione delle operazioni di cattura. Occorre, dunque, attentamente valutare portata e costanza del mercato, disponibilità di novellame e di mangime bilanciato, qualità e quantità delle informazioni sulla biologia (ecologia ed etologia) delle specie, nonché utilizzare moduli di produzione che, senza pretendere di imitare l’ambiente naturale, mirino ad opportunamente agevolare la gestione dell’attività colturale. In definitiva, mentre il mantenimento del pescato in aree confinate o la riproposizione "artificiale" di ambienti produttivi naturali appaiono come varianti non propositive dell’attività peschereccia propriamente detta, la moderna pescicoltura marina manifesta aspetti riconducibili, in modo mediato ma evidente, più all’esercizio delle attività agro-zootecniche che alla pesca.

La stessa vallicoltura (o i reservoirs delle coste atlantiche francesi o le tambaks delle coste indo-pacifiche...), indicata da molti Autori come la progenitrice diretta della pescicoltura marina, si articola attraverso dinamiche produttive più facilmente riconducibili all’oculata gestione di un’area di pesca: che cos’è il lavoriero, se non un meraviglioso, efficiente, originalissimo attrezzo di cattura? Anche la stabulazione dei molluschi bivalvi in bacini (naturali od artificiali) prossimi ai più importanti mercati dell’antichità, che serviva a rivitalizzare gli animali defedati per il lungo viaggio dalle lontane zone di produzione, si presenta come attività non autonoma, ma strettamente correlata, e subordinata, alla pesca. Questi bacini, che svolgevano la medesima funzione volano delle ricordate peschiere, non possono dunque, se non attraverso evidente forzatura, essere considerati come "aree di produzione molluschicola".

Le moderne pratiche di mitilicoltura (e, ancor più, di ostricoltura) appaiono, per la verità, non molto distanti dal modello dell’antica carpicoltura cinese: la medesima cura, mutatis mutandis, attenta all’andamento del ciclo riproduttivo, nella preparazione della nursery, nell’organizzazione delle aree di ingrasso e nella selezione degli individui da avviare al mercato. Per contro, percorrendo a ritroso le tappe evolutive che hanno condotto all’attuale assetto produttivo della mitilicoltura, veniamo a cogliere segnali inequivocabili che suggeriscono modelli di riferimento affatto diversi e distanti: la mitilicoltura nasce certamente come attività volta al recupero di risorse marginali nell’ambito della piccola pesca, ma utilizzando strumenti normativi ed organizzativi che vengono organicamente mediati, anche in questo caso, dall’agricoltura (contratti di pastinato).

E’ evidente, dunque, che la contiguità ideologica tra mitilicoltura e carpicoltura cinese si rileva per la parziale, ma significativa, connotazione zootecnica di quest’ultima pratica colturale: nessun segnale di continuità è dato invece di cogliere con la pescicoltura, marina o d’acqua dolce. E’ indubbio, pertanto, che la matrice ideologica delle più moderne espressioni maricolturali sia comune e possa essere riferita a modelli organizzativi e gestionali propri dell’attività agro-zootecnica. Resta da chiarire se i percorsi evolutivi della mitilicoltura e della pescicoltura marina siano autonomi, ovvero se esistano nessi causali tra l’una e l’altra espressione colturale. Secondo la tradizione, la mitilicoltura sarebbe nata in Francia attorno al XIII secolo, utilizzando una tecnica di allevamento (bouchot) rimasta pressoché inalterata sino ai nostri giorni.

Verso i primi anni del XVIII secolo, ed a partire da esperienze colturali non molto dissimili dai bouchots, è stata messa a punto, nel Mar Piccolo di Taranto, una tecnica affatto nuova, consistente nel mantenere i mitili in sospensione, all’interno di parchi fissi denominati vivai. Questa tecnica di allevamento, pregna di potenzialità evolutive, ha reso possibile, attraverso varianti non sostanziali (zattere e long-lines), lo sviluppo della mitilicoltura in tutto il mondo. E’ interessante, per inciso, notare che la mitilicoltura tarantina, sorta a partire da esperienze di pastinato, mantenga, anche quando assume le caratteristiche proprie di attività maricolturale, un vocabolario gergale evidentemente mediato dall’agricoltura: i vivai vengono indicati come giardini delle cozze e la costruzione delle reste prende il nome di innesto.

Non solo: i pali di sostegno sono i medesimi impiegati in viticoltura e l’unico strumento, diverso dalle mani, utilizzato dal mitilicoltore è la falce del contadino, che serve a recidere le reste. La nascita della pescicoltura marina è molto più recente (seconda metà del XX secolo), e trova le sue motivazioni di base nel repentino (non graduale!) declino della produttività dei sistemi vallivi: le specie sulle quali ci si indirizza sono, infatti, quelle tipiche delle valli da pesca. In quegli anni, l’alterazione dei delicati equilibri che caratterizzano i bacini costieri salmastri, frutto del degrado ecologico e di gestioni poco oculate, aveva drammaticamente decimato le produzioni, rendendo necessari onerosi e complessi interventi di salvaguardia.

Si pensò di agire su diversi fronti: per incrementare i tassi di sopravvivenza si mirò a migliorare la componente idrodinamica, si adottarono misure per proteggere gli avannotti dal rigore del clima e dall’assalto dei predatori e ci si preoccupò di integrare l’alimentazione naturale con apporti esogeni; per incrementare la produttività si cercò di favorire la rimonta naturale e si seminò novellame acquistato o catturato altrove. Si posero in essere, infine, dispendiose misure per ridurre i danni causati dai frequenti furti. E’ innegabile, tuttavia, che solo attraverso la riproduzione in condizioni artificiali delle specie marine si diede esito positivo alla crescente indisponibilità di specie tipiche degli ambienti lagunari: nessun’altra misura avrebbe potuto essere altrettanto efficace.

E’ evidente, quindi, che, se la pescicoltura marina ha trovato la sua ragion d’essere nella crisi della vallicoltura, essa tuttavia è riuscita a decollare solo grazie al rapido trasferimento di tecnologia dalla troticoltura: moduli di allevamento, tecniche di riproduzione, misure profilattiche e terapeutiche, dinamiche gestionali; persino i mangimi utilizzati erano quelli per trota! La riproduzione in condizioni artificiali della trota si deve ad un ufficiale prussiano di Hannover, S.L. Jacobi, che nel 1763 pubblicò, su un periodico a modesta diffusione, i risultati dei suoi esperimenti. L’interesse di Jacobi non era rivolto alla pescicoltura d’acqua dolce, ma a studi di embriologia sperimentale: il suo lavoro non ebbe dunque un immediato riscontro produttivo.

Una decina d’anni più tardi, quando il testo fu pubblicato in francese, due pescatori di La Bresse utilizzarono le ricerche di Jacobi per ripopolare con 50.000 avannotti di trota, riprodotti in condizioni artificiali, i ruscelli della zona. Le primissime esperienze in tal senso, tuttavia, risalgono al XVI secolo, quando un monaco dell’Abbazia di Réome, in Borgogna, un certo Dom Pinchon, dopo aver raccolto in un fiume alcune uova fecondate di trota, le lasciò schiudere in una cassetta di legno grigliata, che aveva deposto nello stesso corso d’acqua. L’intento del religioso era di certo nobilmente speculativo, ma non è un caso che la storia della pescicoltura d’acqua dolce sia costellata di monaci dediti all’allevamento di specie ittiche: per dirla con Ghittino "questa forma di pescicoltura ebbe (nel XV e XVI secolo) forte impulso, condizionato dalla necessità di disporre di cibo confacente ai lunghi periodi di astinenza e digiuno dei religiosi che popolavano i conventi".

E poiché l’organizzazione conventuale rappresenta il più alto esempio di perfetta integrazione tra diverse forme produttive, in quanto tendente a garantire l’autosufficienza alimentare della popolazione di monaci, ecco riemergere, anche se remota, la relazione di continuità, mediata dalla cosiddetta pescicoltura integrata, tra pescicoltura marina ed attività agro-zootecnica. Se, dunque, è dato di rilevare evidenti segnali di contiguità culturale, evocanti una progettualità ed una logica gestionale comuni, tra espressioni diverse della maricoltura e dell’agricoltura tradizionale, più sfumate sono le indicazioni a testimonianza di una continuità temporale tra esperienze di pescicoltura integrata (intesa come attività agro-zootecnica) e la pescicoltura marina: la ragione è nell’esistenza di un break point, rappresentato dalla riproduzione in condizioni artificiali delle specie ittiche oggetto di allevamento.

La mitilicoltura, al contrario, compie un percorso autonomo e non subalterno, occupando nicchie produttive affatto originali, anche se determinate da iniziative gestionali complementari attinenti alla pesca. La logica progettuale della mitilicoltura, fondata sul recupero di risorse marginali nell’ambito delle attività alieutiche, si dispiega utilizzando appieno risorse tecnologiche, strumenti normativi ed organizzativi propri dell’agricoltura tradizionale. La maricoltura, dunque, non può essere considerata né il mero adeguamento delle tecniche proprie della tradizionale pescicoltura d’acqua dolce ad un diverso ambiente produttivo, né il volano che può stabilizzare il mercato dei prodotti alieutici, nulla ha a che spartire con bisogni estetico-ornamentali, poco con le esigenze di gestione delle aree da pesca: essa è piuttosto il prodotto originale di autonome strategie produttive, che, facendo proprie le esperienze della moderna pescicoltura d’acqua dolce e della vallicoltura, mirano a garantire la piena compatibilità tra esigenze di mercato e sfruttamento ottimale della risorsa-mare.

E’ evidente, in definitiva, che pesca e maricoltura, partendo da premesse ideologiche antitetiche, seguano percorsi evolutivi autonomi e vadano ad occupare ambiti produttivi separati. Non si propongono, dunque, come attività alternative, che interagiscono su un medesimo pool di risorse: appaiono piuttosto come esperienze gestionali complementari, entrambe finalizzate, se correttamente indirizzate, al soddisfacimento di alcuni tra i primari bisogni dell’umanità. (*) Il Prof. Riccardo Della Ricca è Docente di Tecnologie di Allevamento presso il "Diploma Universitario in Produzioni Animali orientamento Maricoltura, Facoltà di Medicina Veterinaria dell'Università degli Studi di Bari."

LA VITA DEL MARE

Il mare è l’ambiente in cui, più di tre miliardi e mezzo di anni fa, ebbe inizio l’evoluzione di semplici alghe monocellulari e batteri, assai simili a quegli stessi organismi che costituiscono ancora oggi la base della vita nel mare. Questa microflora è conosciuta col nome di fitoplancton (dal greco vegetali alla deriva) che riceve dalla luce del sole e dai nutrienti contenuti nelle acque ciò che è necessario a generare le molecole complesse dei tessuti viventi. Il fitoplancton si sviluppa in un sottile strato prossimo alla superficie dell’oceano, formando una biosfera che si stende fino a una profondità di 100 metri. Diverse comunità di animali che si alimentano su questo ricchissimo “pascolo” : a cominciare dallo zooplancton di più ridotte dimensioni, molti organismi del quale, al pari del fitoplancton, sono esseri monocellulari.

Particolarmente numerosi sono i radiolari, i cui scheletri silicei formano gran parte dei sedimenti a grande profondità. Nello zooplancton di maggiori dimensioni sono presenti i vermi nastriformi, le piccole meduse, i granchi natatori e diverse varietà di gamberetti. Questi due tipi di plancton sono così abbondanti che si valuta generino ogni anno, rispettivamente, 16 miliardi e 1,6 miliardi di tonnellate di carbonio (l’elemento fondamentale dei tessuti viventi). Di questo plancton si alimenta una vasta schiera di animali di maggiori dimensioni, la cui produttività annua si aggira attorno a ulteriori 160 milioni di tonnellate. Queste specie ci forniscono i due quinti di tutto il pesce che consumiamo.

Al contrario, i pesci che si cibano di altri pesci generano solo 16 milioni di tonnellate di carbonio all’anno e ci forniscono circa un ottavo del pesce che consumiamo. Anche negli oceani, come sulla terraferma, la vita è distribuita in modo irregolare, giacché nel mondo marino sono presenti gli equivalenti (lei deserti e delle foreste tropicali. In certe aree il fondale è coperto (la vaste distese di sabbia, che pur non essendo completamente prive di vita (come del testo noti è nemmeno il Sahara), risultano impoverite rispetto al resto dell’oceano All’ estremo opposto c’è un rigoglio di “foreste tropicali”, in particolare nelle zone costiere paludose, negli estuari e nelle zone di risalita delle correnti. La Grande Barriera Corallina ’Australiana ospita più di tremila specie animali.

Poi ci sono le zone abissali dove, nonostante il buio totale e la temperatura vicina a quella di congelamento, la vita è ben presente: fino ad oggi sono state individuate oltre 2000 specie di pesci ed altrettanti invertebrati che l’adattamento a un ambiente così estremo ha sviluppato in forme bizzarre. L’oceano è un'ecosfera tridimensionale completamente diversa da quella "terrestre", con una biomassa vegetale ed animale enorme, circa la metà di quella dell'intero pianeta, ma diffusa sul 70% della terra e difficile da individuare. Il mare da vita ad un'enorme varietà di esseri viventi collegati tra loro da un intreccio di relazioni energetiche e biologiche che viene chiamato rete trofica. La rete trofica è un modello che descrive il trasferimento di energia (a partire da quella solare) attraverso una serie di organismi che consumano e che sono consumatori.

È composta da: organismi autotrofi-produttori primari, ovvero da quegli organismi in grado di produrre sostanza organica ed energia a partire dalla luce solare e dalle molecole inorganiche presenti nell’atmosfera o nel suolo (le piante); da consumatori primari, che si nutrono di questi organismi autotrofi (erbivori); da consumatori secondari, che si nutrono dei consumatori primari per il proprio fabbisogno energetico ed infine dai decompositori che restituiscono all’ambiente fisico le sostanze inorganiche di base, decomponendo i resti e le feci degli organismi.

In un ecosistema terrestre la rete trofica assume quindi generalmente la forma e la struttura di una piramide, con i produttori primari alla base. Le biocenosi marine, rispetto a quelle terrestri, hanno una maggiore complessità per i seguenti motivi: presenza di un maggior numero di nicchie ecologiche (le opportunità offerte ad una specie di accedere ad una particolare risorsa alimentare o spaziale, evitando la concorrenza di altre specie; in una vecchia ma efficace definizione utilizzata in ecologia, l’habitat rappresenta l’indirizzo di una specie, la nicchia, la professione); enorme quantità di sostanze organiche che si depositano sul fondo, dando origine a catene trofiche basate sul detrito; presenza in maggiore quantità, rispetto all’ambiente terrestre, di organismi in grado di produrre energia attraverso la degradazione di sostanze chimiche senza l’apporto di energia solare. Negli oceani pertanto possiamo trovare:

Produttori primari: possono essere vegetali o batteri autotrofi, sia planctonici, come le alghe azzurre e alghe verdi unicellulari, sia bentonici come le fanerogame marine; costituiscono la base della piramide trofica. Filtratori sospensivori o sestonofagi: organismi microfagi, che si nutrono cioè di minuscole particelle di cibo sospese in acqua (plancton che detriti o particelle organiche); possono essere sia organismi planctonici, come i copepodi, sia organismi sessili come spugne, coralli, ascidie, gorgonie. Detritivori: microfagi, generalmente bentonici, che si nutrono dei detriti organici presenti sul fondo marino, oltre che di larve e di batteri o altri microrganismi; tra i detritivori alcuni bivalvi, oloturie e crostacei come anfipodi e isopodi. Limivori: animali bentonici che si cibano ingurgitando grandi quantità di limo e sedimento da cui poi estraggono, nel canale digerente, le particelle nutrienti e i residui organici; appartengono a questo gruppo molti policheti (arenicola, tremolina, etc).

Erbivori: corrispondono ai consumatori primari terrestri; si nutrono di vegetali. In questo gruppo le salpe, i ricci di mare, alcuni molluschi come l’occhio di Santa Lucia e la lepre di mare. Onnivori e/o spazzini: macrofagi, si nutrono sia di vegetali che di carogne, oltre che di prede vive; in questo gruppo crostacei decapodi, policheti, e gasteropodi come la nassa ed il buccino, oltre a diverse specie di pesci.

Carnivori: macrofagi, si nutrono di altri anima li; appartengono a questo gruppo selaci (squali e razze), molti pesci, cefalopodi, alcuni cetacei, meduse, stelle marine e molti molluschi nudibranchi. Parassiti: gruppo molto numeroso e molto specializzato di animali appartenenti a phila diversi, che hanno limitato la vita libera alla sola fase larvale, trascorsa in cerca di un ospite, realizzando strutture per accedere a questo, sia internamente (endoparassiti come nematodi, cestodi ed alcuni crostacei) che esternamente (ectoparassiti, come diverse specie di crostacei, che aderiscono alla superficie della vittima).

La composizione delle reti trofiche in mare dipende da molti fattori (la profondità, la presenza di luce, le correnti marine) che daranno vita a comunità e biocenosi differenti a seconda della loro diversa influenza. Tratto da: http://www.legambientearcipelagotoscano.it/biodiversita/mare/vita.htm 

LA PESCA ECCESSIVA

Una minaccia alla biodiversità marina è una pesca incontrollata che può compromettere irrimediabilmente i meccanismi naturali di riproduzione dell’ambiente ittico di un tratto di mare o di un corso d’acqua, provocando la scomparsa di diverse specie. Malgrado la relativa importanza cruciale per la sopravvivenza dell’umanità, la biodiversità è in pericolo con lo svuotamento delle industrie della pesca dei prodotti pescati. La pesca è essenziale per la vita ed la sicurezza alimentare di 200 milioni di persone, particolarmente nel mondo in via di sviluppo, mentre uno su cinque abitanti di questo pianeta dipende dai pesci come fonte primaria di proteine. Secondo le agenzie dell’ONU, l'acquicoltura (coltivazione e immagazzinamento degli organismi acquatici compresi pesci, molluschi, crostacei e piante acquatiche) sta sviluppandosi più velocemente di tutti gli altri alimenti. Lo svuotamento delle industrie della pesca rappresenta una minaccia importante all'approvvigionamento di generi alimentari per milioni di persone.

Una soluzione al problema è l’istituzione delle zone protette marine (MPAs), che molti esperti credono possono essere utili per la conservazione e la riproduzione delle specie ittiche. La grandezza del problema della “pesca eccessiva” è spesso trascurato; questo problema assieme al disboscamento, alla desertificazione, allo sfruttamento delle risorse energetiche, provoca uno svuotamento della biodiversità. La veloce crescita della domanda dei prodotti della pesca, provoca un aumento dei prezzi in maniera più veloce dei prezzi della carne. Di conseguenza, gli investimenti delle industrie della pesca sono diventati più allettanti, provocando un impoverimento delle specie ittiche come merluzzi e naselli. Alcuni, per sopperire al disastro, stanno suggerendo il fermo biologico per consentire il ripopolamento.

Niente o poco si fa per agevolare lo sviluppo e soltanto un numero limitato dei paesi sviluppati sono sulla via per attuare entro questo anno il piano d'azione internazionale onde impedire, trattenere ed eliminare la pesca non programmata e non stabilizzata. Nonostante che, in realtà, ogni singolo paese abbia adottato proprie convenzioni regionali per la salvaguardia della fauna marina e circa 108 governi e la stessa Commissione Europea abbia adottato il programma globale di U.N.E.P. (United Nations Environment Programme = Programma Ambientale delle Nazioni Unite) relativo alla protezione dell'ambiente marino avverso le attività terrestri, gli oceani sono depauperati due volte di più rispetto le foreste. Il congresso di Johannesburg ha sollecitato l'importanza di ristabilimento delle industrie della pesca già fallite ed ha riconosciuto che la pesca sostenibile richiede la compartecipazione dei governi, dei pescatori, delle Comunità e delle industrie; ha inoltre invitato i paesi a ratificare la convenzione sulla legge del mare ed altri strumenti che promuovano la sicurezza marittima e proteggano l'ambiente da inquinamento marino e da danni ambientali causati dalle navi. Soltanto un metodo multilaterale può controbilanciare il tasso di svuotamento delle industrie mondiali della pesca che è aumentato più di quattro volte durante i 40 anni trascorsi.

Tratto da: Per ulteriori informazioni: © Mr. Nick Nuttall, Head of Media Services, United Nations Environment Programme (UNEP), Nairobi, Kenya. E-mail Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. 

I TESORI DELLA SPIAGGIA E DELLA PIATTAFORMA CONTINENTALE

La piattaforma continentale è la fascia sommersa che si estende dalla linea di costa fino a 200 metri di profondità: ha una larghezza media di 78 chilometri e una superficie complessiva enorme. Con 25 milioni di chilometri quadrati essa costituisce il 7 % circa dell’intera superficie oceanica e ha un’area quasi pari a quella di Europa e Sud America sommate insieme. La maggiore ricchezza della piattaforma continentale è il petrolio. Ma oltre all’oro nero essa offre all’uomo molte altre cose. I materiali più comuni sono le ghiaie e le sabbie da costruzione. All’epoca attuale c’è un bisogno enorme di tali materiali, per costruzioni di edifici, impianti industriali, strade, aeroporti eccetera. Nei Paesi più avanzati si calcola che il consumo annuo, in continuo aumento, equivalga a oltre cinque tonnellate per abitante!

Prelevare tali materiali sulle aree emerse comincia a diventare un problema di difficile soluzione. Infatti i costi dei terreni, in cui aprire le cave, sono spesso proibitivi, o addirittura non ci sono terreni disponibili per lo scavo, perché è più redditizio usare tali aree per l’agricoltura o per gli insediamenti, ciò anche senza considerare il lato ecologico, la deturpazione dell’ambiente. Prelevare sabbie o ghiaie dai corsi d’acqua si è già dimostrato estremamente dannoso per l’influenza che questa operazione ha sul regime del fiume: lo scavo sulle sue sponde o nel suo letto ne modifica la dimensione e, in particolare, la pendenza. Se questa aumenta, aumenta anche la velocità della corrente e quindi la sua forza erosiva; se lo scavo si verifica in altre parti si determinano invece delle contropendenze cui può conseguire il rigurgito o lo straripamento. Nei fondi della piattaforma ci sono invece risorse immense, qua e là, di sabbie e di ghiaie.

Queste ultime sono il residuo di fiumi “fossili” che esistevano quando la piattaforma era emersa come conseguenza del ritiro del mare per le glaciazioni. Al successivo aumento del livello del mare, che è cresciuto di circa 150 metri dopo l’ultima glaciazione, questi fiumi sono stati man mano ricoperti dai fini sedimenti marini e dall’acqua stessa del mare. Le sabbie marine costituiscono addirittura parte dei sedimenti attuali, derivati dal trasporto fluviale e dall’erosione delle coste ad opera del moto ondoso. I metodi geofisici e le perforazioni permettono di individuare questi alvei sepolti e sommersi. L’unico vero problema che sussiste nel caso delle ghiaie e delle sabbie marine da utilizzare come materiale da costruzione è che sono salate; il sale contenuto infatti disturba, sia che si tratti di materiale inerte da usare per esempio nelle massicciate, sia di materiale che entra nella composizione di malte e di calcestruzzi.

Nel primo caso infatti il sale può, dilavato dalle acque meteoriche o circolanti, inquinare il terreno agricolo o la falda acquifera del sottosuolo; nel secondo caso invece il sale ostacola o impedisce la presa della calce o del cemento, compromettendo l’efficienza della struttura in cui il materiale viene impiegato. Per la dissalazione sono stati fatti diversi tentativi e il problema principale è sempre lo stesso: far sí che il sale disciolto durante le operazioni di “lavaggio” di questi materiali sia trasportato rapidamente in mare e non si depositi invece sui terreni circostanti: le ghiaie e le sabbie salate sono state poste in foci fluviali o anche sul terreno, presso le coste, in modo che l’acqua salmastra derivata dal dilavamento di questi materiali ad opera dell’acqua del fiume o della pioggia potesse defluire piú rapidamente possibile al mare.

Si tratta comunque di problemi complessi, che impongono di volta in volta attenti studi e attente scelte territoriali; altrimenti il danno può essere maggiore di quello provocato dalle comuni cave di ghiaia e sabbia nel letto dei fiumi. Nel campo delle sabbie comuni sono da citare, come materia prima per importanti lavorazioni, le sabbie calcaree e le sabbie quarzose. Le sabbie calcaree possono derivare dalla disgregazione di rocce calcaree che si affacciano su talune coste o che sono incise dai fiumi: dalla continua elaborazione provocata dal rotolamento, ciottoli o blocchi di roccia vengono via via ridotti di dimensioni fino a trasformarsi prima in granelli di sabbia, poi in particelle ancora più fini come quelle del limo e, poi, a dissolversi. In altri casi le “sabbie” calcaree derivano da frammenti di conchiglie che, in talune zone, possono essere straordinariamente abbondanti.

Queste sabbie calcaree sono preziose per produrre calce e cemento, come nelle regioni in cui le rocce del continente sono di natura vulcanica e mancano delle normali materie prime per questi prodotti e cioè calcari e marne. Nel caso, ad esempio, dell’Islanda, un’isola vulcanica in cui mancano altre fonti di calce, il carbonato di calcio necessario per ottenere la calce o per fabbricare il cemento viene ricavato da depositi sottomarini di gusci di conchiglie, situati presso le coste e a non grande profondità. Le sabbie quarzose, invece, se sono pure e abbondanti sono assai pregiate poiché dalla loro fusione, con l’aggiunta di opportuni additivi, si ottiene il vetro. Se non sono pure possono comunque essere utilizzate per fabbricare malte più dure e resistenti di quelle fatte con calce e sabbia calcarea. L’accennato fenomeno dei granuli di carbonato di calcio che vengono successivamente ridotti fino al completo dissolvimento, obbliga a spiegare cosa sono e come si formano i sedimenti sabbiosi. Questi infatti si formano attraverso processi di disgregazione, di selezione e di trasporto, legati sia alla durezza ed alla resistenza del materiale sia alla sua densità.

Materiali molto duri danno sabbie persistenti, che non si dissolvono o si dissolvono lentamente; materiali molto densi danno sabbie che si separano facilmente da altri granuli. Se la densità dei granuli, diversi per composizione chimica o per natura mineralogica, è pressoché eguale, il gioco delle correnti e del moto ondoso non riesce a separare, a frazionare cioè, i vari componenti, tanto che resta una sabbia mista, di difficile utilizzazione specifica. Le sabbie, calcaree o quarzose, sono uno dei prodotti estremi di un processo di disgregazione che è cominciato molto lontano, sul continente: le piogge, il freddo, le acque correnti hanno distaccato frammenti rocciosi dalle montagne e li hanno trascinati fino al mare.

Durante questo percorso i pezzi di roccia si sono ulteriormente spezzati e levigati fino a quando non sono giunti al mare. Qui le onde e le correnti costiere li hanno trascinati magari molto lontano dalla foce del fiume attraverso il quale sono giunti al mare. Durante tutto questo viaggio i granuli sono stati selezionati: quelli meno resistenti sono scomparsi perché si sono disciolti; quelli più leggeri sono stati portati più lontano, mentre quelli più pesanti si sono fermati prima. Ecco perché alcune spiagge sono costituite soprattutto da granuli di un certo tipo: il mare stesso li ha scelti e separati dagli altri. Naturalmente questo è possibile soltanto quando i granuli originari avevano proprietà fisiche (densità, soprattutto) abbastanza diverse perché il mare potesse fare la sua scelta.

Qualche volta le sabbie utili si trovano presso la spiaggia o anche sulla spiaggia, oppure si trovano più al largo; in genere si giudica che sia economica la coltivazione di questi giacimenti fino a profondità di una cinquantina di metri. Le sabbie vengono scavate mediante draghe o mediante aspirazione. Un problema, non sempre trascurabile, a tal punto è, come nel ben noto caso della ipotizzata coltivazione dei noduli di manganese, l’inquinamento determinato dalla torbidità provocata dalle operazioni di scavo. Un altro minerale molto poco inalterabile, presente in molte rocce, sia pur in piccola quantità, è lo zircone, da cui si ricava il metallo zirconio, usato nella moderna tecnologia. Se la sua concentrazione in certe sabbie è sufficientemente elevata, esso può venire estratto in maniera rimunerativa. Pure il quarzo è sufficientemente inalterabile da rimanere nelle sabbie.

Esso però viene coltivato dalle sabbie solo se queste sono sabbie quarzose praticamente pure, altrimenti la separazione non è conveniente. Le sabbie quarzose servono nella fabbricazione del vetro; esse possono essere usate però anche nella fabbricazione di refrattari.

 

Testi di Riccardo Della Ricca


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