Approfondimenti

L'azione antropica

L'azione antropica

Il territorio attuale è il risultato di processi evolutivi, fisici e biologici e dei loro complessi rapporti con le attività antropiche di sviluppo economico e sociale. Ogni scelta suscettibile di produrre modificazioni territoriali rilevanti deve perciò fondarsi sul riconoscimento della rilevanza globale e indivisibile del territorio ai fini della sicurezza, della qualità della vita e dello sviluppo per le attuali e le future generazioni.

Il principio di sostenibilità

Alla base delle politiche territoriali deve esserci la piena consapevolezza della complessità delle interdipendenze che legano, ad esempio, il ciclo delle acque e i processi naturali all’organizzazione e all’uso del territorio: tra la tutela ambientale, la difesa del suolo, la gestione delle acque e la pianificazione urbanistica e territoriale ci sono connessioni che si manifestano in modo anche drammatico, ad esempio in occasione dei grandi eventi alluvionali. Così come la gestione di un Parco Nazionale, pur se affidata a un Ente specifico e da questo attuata, non può prescindere dalle politiche urbanistiche, economiche e sociali relative al territorio in cui il Parco è posto. Il principio di sostenibilità richiede un approccio a scale diverse nello spazio e nel tempo. Se infatti alla scala, ad esempio, del bacino idrografico sono state insufficienti la programmazione e la pianificazione degli interventi per la difesa del suolo, non si deve trascurare il fatto che - alla scala regionale o interregionale - possa essere stato inadeguato il coordinamento delle decisioni e delle scelte per la gestione collettiva dell’acqua e dei suoi trasferimenti o che - alla scala locale - possa essere stata insufficiente o trascurata l’attività di manutenzione di opere e infrastrutture.

Azioni che non risultino pienamente giustificate su tutti i terreni non sono più ammissibili: Piani urbanistici privi delle necessarie indagini geologiche o idrologiche, delle necessarie valutazioni del patrimonio edilizio,dell’edilizia rurale, del patrimonio botanico e faunistico, non debbono più essere consentiti. Ma in modo analogo non possono essere consentite realizzazioni di importanti opere pubbliche che non tengano adeguatamente conto delle conseguenze sul territorio e sull’ambiente, conseguenze che non si limitano all’impatto visivo ma arrivano a riguardare le modifiche del regime di scorrimento delle acque e la frammentazione degli habitat naturali. La sostenibilità attraversa tutte le discipline e comporta che non sia più accettabile che queste agiscano in modo isolato, ignorandosi o competendo per un inesistente predominio: una politica del territorio può nascere solo dalla convergenza di dati, metodi e assunti di varie discipline in un lavoro comune.

Ciò non si ottiene coltivando l’idea di un unico centro di raccolta dei dati, né quella che una disciplina assuma la leadership nel campo della gestione del territorio. Si ottiene invece stimolando ogni disciplina e ogni diversa prospettiva di tutela e di trasformazione economica alla conoscenza anche delle altre prospettive, all’integrazione dei metodi e delle diverse scale alle quali esse operano. La nuova fase richiede la consapevolezza dell’intreccio, ormai imprescindibile, fra sostenibilità e qualità dello sviluppo.

Il principio di prevenzione

Occorre riconoscere che, nel nostro contesto storico e geografico, l’utilizzo e la domesticazione antropica dei sistemi naturali non possono estendersi e intensificarsi senza limiti e occorre anche riconoscere che, allo stato attuale delle conoscenze, il progresso tecnologico non può risolvere tutti i problemi, né proteggere da ogni rischio, né continuare a sfidare la natura. La prevenzione dei rischi e la loro riduzione entro limiti accettabili comporta la riduzione dell’interferenza antropica nei processi naturali: le politiche del territorio devono rispettare, assai più di quanto non si sia fatto nel recente passato, la capacità evolutiva degli ecosistemi e le manifestazioni naturali dei processi idrogeologici e geomorfologici, prevenendo interventi e sviluppi insediativi e infrastrutturali che possano provocare o aggravare i rischi o i sovraccarichi ambientali. Una corretta politica del territorio richiede una valutazione ambientale strategica dei piani urbanistici alle differenti scale, dai Piani territoriali di coordinamento ai Piani regolatori comunali. Una valutazione, con efficacia concreta e penetrante, che nasca da specifiche e approfondite analisi locali che riguardino le previsioni di consumo di territorio, come la stima dei conseguenti fabbisogni idrici o della domanda di mobilità e degli altri fattori significativi connessi.

Una corretta politica del territorio deve eliminare l’illusione che sovrastimando i fabbisogni insediativi e infrastrutturali si aiuti lo sviluppo economico e sociale del paese. L’infinita serie di progetti interrotti, di opere ultimate a stento, di variazioni in corso d’opera, di tempi di ultimazione costantemente rinviati, di costruzioni rimaste vuote e inutilizzate, dovrebbe avere insegnato che un atteggiamento più prudente e realistico è spesso più razionale ed efficace anche dal punto di vista economico. Continuare a ragionare come se ancora fossimo nella prima fase dell’industrializzazione, senza occuparsi della prevenzione dei costi indiretti, degli sprechi e degli usi inefficienti di una risorsa preziosa e scarsa come il territorio, produce arretratezza e degrado.

Il principio di precauzione

Non possiamo d’altra parte permetterci di trascurare una diagnosi anche se questa è incompleta: il principio di precauzione richiede che ogni decisione sulla gestione del territorio venga presa con il massimo margine di sicurezza possibile. Poiché la complessità dei sistemi ecologici (e l’imprecisione stessa delle scienze) non permette mai di avere un quadro completo delle conoscenze, né di prevedere con esattezza lo sviluppo delle dinamiche dei sistemi, il principio di precauzione richiede che si agisca avendo sempre come riferimento lo scenario più prudente tra quelli possibili, quello che corrisponde all’attuale livello di dubbio nella conoscenza delle situazioni e nella previsione dei fenomeni futuri. La vera precauzione è nell’agire con i metodi della programmazione dinamica e della pianificazione in presenza di incertezza. È lo stesso principio che suggerisce di limitare la velocità di un’auto per prevenire incidenti gravi. Precauzione significa limitare gli interventi sul territorio a quelle azioni delle quali possiamo ragionevolmente prevedere effetti non distruttivi e delle quali possiamo comunque assicurare la compatibilità. Poiché i sistemi ecologici sono regolati da un gran numero di interrelazioni con un alto grado di stocasticità, i modelli deterministici di previsione sono inutilizzabili. I modelli probabilistici, meno grezzi, sono spesso limitati dalla scarsità di informazioni sui parametri in gioco e sulle funzioni che li collegano.

Adottare il principio di precauzione su basi scientificamente fondate, specialmente quando i danni temuti possono essere seri, consente di ridurre i rischi e gli errori di valutazione. Il principio di precauzione è codificato in accordi e convenzioni internazionali importanti, a cominciare dalla Convenzione internazionale sulla biodiversità, e costituisce il riferimento più efficace finora disponibile per guidare l’azione antropica nella complessità delle dinamiche dei sistemi naturali. Seguendo questo principio le risorse naturali devono essere considerate e gestite come risorse limitate, d’importanza vitale per l’uomo e la biosfera, la cui quantità e qualità devono essere gelosamente e continuamente salvaguardate con politiche volte a controllare e, ove possibile, a ridurre o azzerare sprechi, distruzioni e processi di inquinamento e di degrado evitando interventi dagli esiti incerti o non adeguatamente valutabili. La stessa esigenza si pone nei confronti del patrimonio paesistico e culturale come componente essenziale della qualità della vita ed espressione irrinunciabile dell’identità e della storia delle comunità locali e della collettività nazionale. Adottare il principio di precauzione nella gestione del territorio significa attribuire, nella scala delle valutazioni, un elevato livello di priorità alle qualità dei suoi assetti. Tale livello di priorità non deriva tanto e solo dall’aggravamento dei fattori di rischio – pure presente – ma dall’accresciuta percezione pubblica di tali rischi e dalla domanda diffusa di elevata qualità territoriale e ambientale. Solo l’adozione consapevole del principio di precauzione consente di praticare un livello elevato di tutela del territorio, in sintonia con la nuova percezione dei rischi e la nuova domanda sociale di qualità. Tratto da: Il territorio italiano e il suo governo - Indirizzi per la sostenibilità a cura di Edo Ronchi © Edizioni Ambiente 2005

Aspetti della gestione della fascia costiera

La gran parte delle coste ioniche è soggetta ad erosione che sta modificando, piuttosto rapidamente, aspetto e forme degli spazi costieri. Questa situazione, diffusa a tutti i tipi di costa, è particolarmente evidente per quello più suscettibile, le spiagge; il loro rapido arretramento ormai costituisce un problema diffuso di non facile soluzione tanto per l’equilibrio dell’ecosistema costiero quanto per l’economia locale. La causa di tutto è da cercarsi in alcune modificazioni subite dal sistema: almeno due di queste, le variazioni climatiche e l’innalzamento del livello del mare, sono di ordine naturale forse ma non si è ancora ben definito quanto, controllate in parte dall’uomo, e pertanto poco governabili; le altre, probabilmente le più efficaci nel breve periodo, legate alla modifica del dina mismo costiero e del bilancio sedimentario, sono indotte dall‘uomo. La gestione della fascia costiera infatti richiede il controllo di fattori e parametri che se apparentemente molto lontani, anche fisicamente, sono invece strettamente interconnessi l’uno all’altro. Non esiste al momento una ricetta assoluta; lo stesso strumento del ripascimento artificiale va considerato come extrema ratio di fronte ad un sistema definitivamente danneg giato dall’attività antropica. Ove possibile, il primo mezzo per la protezione dell‘ambiente costiero deve essere il ripristino delle condizioni dinamiche naturali; ciò permette la riqualifi cazione ambientale anche dal punto di vista paesaggistico.

Qualsiasi intervento va pianificato su misura ed esteso all‘unità fisiografica; occorre essere padroni dell’intervento ma anche e, forse, soprattutto, conoscere l‘ambiente per evitare il rigetto da parte del sistema costiero. Ogni intervento deve essere studiato in loco evitando di trasferire a priori tecniche che pur avendo determinato effetti positivi in aree campione po trebbero non essere compatibili con il variare dei parametri del sistema.parametri del sistema su cui si deve intervenire. La convinzione della necessità di un intervento, quindi, scaturisce dalla effettiva individuazione di un disequilibrio del sistema; esso può essere di natura fisiologica, derivante dalla variabilità “naturale”, e non solo “antropica”, di uno dei Da parte delle Amministrazioni e dell’ope ratore deve esserci la consapevolezza che la migliore opera di ingegneria costiera non può tramutare una situazione dinamica, in continuo divenire, in equilibrio istantaneo.

Opere di grande efficacia ai fini della ricostruzione di aree di spiaggia sono state approntate in Francia per mettendo al sistema di rigenerarsi da solo, anche in tempi lunghi, con realizzazioni assolutamente non riconoscibili in superficie, e comunque senza intervenire in maniera drastica su strutture antropiche causa di quei disequilibri. La gestione della fascia costiera comporta la difficile gestione integrata di tutti i parametri del sistema costiero. Non ha senso effettuare opere di riqualificazione ambientale e di ripascimento se non si provvede a ricostruire tutto il sistema naturale che deve contenere e conservare a lungo termine il materiale reintrodotto e principalmente se non si programma, e si controlla, la capacità d‘uso del sistema spiaggia.

Innalzamento del mare e arretramento della linea di riva

La maggior parte delle aree costiere densamente popolate del globo sono soggette all’innalzamento del livello medio del mare (Bird, 1993; Nicholls e Leatherman, 1995; Nicholls et al., 1995; Leatherman, 2001). Esso, dovuto a fattori eustatici e sterici su scala planetaria ed esasperato da fatti locali, può essere stimato nell’ordine di grandezza di alcuni mm/anno, fra 1 e un massimo di 6 mm/anno (Pirazzoli, 1996; Douglas, 2001). Espresse in questi termini, le dimensioni del fenomeno sembrano essere trascurabili rispetto a manifestazioni parossistiche quali eruzioni o terremoti. Già agli inizi degli anni ‘60 del secolo scorso Bruun (1962) suggerì che il manifestarsi di sensibili arretramenti della linea di riva lungo la maggior parte delle coste del globo fosse da mettere in relazione con l’innalzamento del livello medio del mare. Il modello di Bruun prevede che la risalita del livello del mare ed il connesso arretramento della linea di riva siano nel rapporto di 1 a 50-200. Se tale teoria apparve dimostrabile da subito per piccoli specchi d’acqua, l’applicabilità di tale modello ai bacini oceanici fu sottolineata solo in tempi più recenti da Leatherman et al. (2000). Studi compiuti lungo le coste atlantiche degli Stati Uniti misero in evidenza un rapporto fra innalzamento del livello del mare ed arretramento della linea di riva pari a 1 a 150. Così l’innalzamento del livello del mare e l’arretramento della linea di riva rappresentano due componenti della pericolosità in quanto ad essi sono connessi l’alterazione degli ecosistemi e della vivibilità della fascia costiera; ad essi sono da attribuire l’aumento dei danni e della possibilità di inondazioni a seguito di mareg giate, l’intrusione salina negli acquiferi, la distruzione di ecosistemi costieri (Nicholls e Leatherman, 1994; Mazzini e Simeoni, 1997). Non devono però essere sottaciute altre forme di sollecitazione che la costa riceve dal mare; queste sono le onde catastrofiche. Sono così definite quelle generate da tempeste a periodicità lunga o gli tsunami e il cui studio in Mediterraneo è stato sottovalutato. Testimonianze storiche addebitano a queste onde la distruzione di interi villaggi lungo costa delle Isole Chéradi (D’Aquino XVII sec. In: Carducci, 1771); più recentemente gli effetti di onde da tsunami generatesi con la mobilitazione di frane sottomarine innescate dal grande terremoto che colpì l’Italia meridionale il 7 dicembre del 1456 sono stati riconosciuti lungo la costa ionica (Mastronuzzi e Sansò, 2000).

Sedimenti contaminati ed ecosistema marino

Lo scavo dei fondali in aree costiere portuali è una operazione periodica e talvolta necessaria per l’agibilità dei porti al transito e all’attracco delle navi. L’escavazione ed il conseguente scarico in mare dei materiali di risulta costituisce però un fattore di rischio a causa della possibile diffusione dei contaminanti nell’ecosistema. In aree costiere antropizzate la presenza di fonti di contaminazione (scarichi civili ed industriali, attività portuali, etc.) produce nelle acque l’aumento di concentrazione di in quinanti di natura organica (ad esempio idrocarburi policiclici aromatici) ed inorganica (metalli pesanti); questi nel tempo, possono essere incorporati nei sedimenti a seguito di processi di decantazione, precipitazione o adsorbimento. I fondali marini portuali risul tano così facilmente contaminati a seguito dell’accumulo nel tempo di sostanze estranee al biociclo marino apportato dagli sversamenti continui ed episodici nonché da affluenze idrogeologiche ai quali il bacino portuale è soggetto nella sua veste di corpo idrico ricet tore dei prodotti risultanti dalle diverse attività civili ed industriali che vi si svolgono.

D’altro canto, le stesse operazioni di dragaggio risultano pericolose per l’ecosistema in quanto comportano la diffusione dei sedimenti nel corpo idrico e la solubilizzazione degli inquinanti accumulati. Tra i porti che per primi si sono attivati nella soluzione di questo problema vi sono sicuramente il porto di New York (USA), di Amburgo (Germania) e di Rotterdam (Olanda). Da qualche anno la Comunità Europea sta affrontando in maniera organica il problema, istituendo un network tematico nell’ambito del Programma di Sostenibilità Ambientale ed Energetica (SEDNET), che si occupa di approfondire tutti gli aspetti relativi alla problematica dei sedimenti contaminati.

Pressioni antropiche

Le informazioni sulle infrastrutture portuali, sia mercantili che turistiche, è stato fornito dalle Capitanerie di Porto pugliesi. I dati interessanti sono essenzialmente la localizzazione, la tipologia delle attività di ciascuna struttura, il numero di posti barca e il traffico. I porti sono un forte elemento di Pressione, con un impatto potenzialmente molto negativo sulle componenti suolo, acqua e biodiversità. Per quanto riguarda il diporto nautico, i posti barca totali in Puglia sono 7.855, cosi suddivisi per provincia: Bari 2.194; Brindisi 584; Foggia 1.065; Lecce 3.425; Taranto 587. Le zone costiere più attrezzate sono la costa adriatica barese e il Salento leccese. Altro fattore di pressione è rappresentato dalla densità di popolazione lungo la fascia costiera di 1 km, basata sulla distribuzione delle località abitate censite dall’ISTAT. Ponendo l’accento sulla sola urbanizzazione, intesa come, estensione delle aree edificate, residenziali, commerciali e industriali, e tralasciando gli altri usi del suolo a valenza antropica (essenzialmente agricoltura), appare chiaro l’impatto che essa ha sulle zone costiere. In relazione a tale ultimo parametro, le aree maggiormente critiche sono senza dubbio la costa della provincia di Bari e quella della penisola salentina e l’arco jonico; situazioni, queste, che meritano alcune riflessioni.

Lungo la costa barese si affacciano comuni di notevoli dimensioni, che assieme al capoluogo regionale Bari totalizzano una popolazione residente di circa 500.000 abitanti. Gli impatti che ne derivano vanno dal carico di reflui urbani immessi in mare, agli scarichi delle attività produttive, alla pesca, ampiamente praticata in questa zona. La penisola salentina invece, in particolare la fascia jonica, mostra un’urbanizzazione con una tessitura più discontinua, legata essenzialmente a una residenzialità estiva, di seconde case. Di conseguenza, qui gli impatti sono dovuti più che altro alla notevole concentrazione di popolazione durante i periodi estivi.


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