Materiali, forme, disposizioni. Come si è già detto, gli scopi, le finalità e le motivazioni, che portano alla costruzione di una scogliera sottomarina possono essere molteplici. Così come diversi sono i materiali utilizzati per la fabbricazione dei singoli moduli; il design adottato dai vari produttori e studiosi; la disposizione dei moduli al fine di ottenere gli scopi prefissati.
I materiali L’evoluzione che ha interessato il "settore" delle scogliere sommerse, circa l’uso dei materiali, negli anni, o forse è meglio dire nei secoli, vista la "antichità" delle prime esperienze attuate in Giappone, ha portato i produttori e gli studiosi ad abbandonare la politica del "hit-or-miss dumping operation of unsightly scrap material", che tradotto vuol dire: "buttar via, indiscriminatamente, ogni materiale di risulta". Questa evoluzione è stata anche favorita dagli scarsi risultati ottenuti mediante l’uso di materiali non sempre appropriati (carcasse d’auto, vecchi pneumatici…). Viste quindi le necessità di chi riteneva opportuno realizzare una scogliera sommersa, quali l’incremento di produzione di biomassa e il richiamo di organismi predatori, gli studiosi hanno cominciato ad utilizzare dei materiali "dedicati". Questo, al fine di massimizzare le potenzialità delle strutture sommerse. Dopo varie prove ed esperimenti, il calcestruzzo si è dimostrato particolarmente adatto per le sue doti di durata nell’acqua di mare, la disponibilità a farsi modellare in qualunque forma e, nelle acque tropicali, la capacità di apportare uno sviluppo di comunità bentoniche, del tutto simili a quelle dei reefs naturali. Materiali, quindi, come la fibra di vetro rinforzata con plastica e il PVC sono stati abbandonati, a causa dei loro problemi di stabilità, della facilità con cui possono essere spostati dalle reti strascicanti e della notevole fragilità, in caso di tempeste. Le forme Le forme che ogni singolo modulo può assumere sono varie. Generalmente, i motivi che spingono i costruttori a scegliere una forma piuttosto che un’altra, per la progettazione e la successiva costruzione di un modulo, sono originati da considerazioni circa le specie animali, costituenti la fauna del sito che riceve la struttura. I moduli esistenti ed utilizzati oggi sono, il più delle volte, disegnati dai ricercatori e prodotti dall’industria solo per la specifica struttura da realizzare. Non sono molte, infatti, le aziende che progettano e producono moduli in larga scala. Però alcune lo fanno, soprattutto nei paesi pionieri in fatto di scogliere sommerse. Da segnalare, in tal senso, sono i moduli prodotti dalla americana "Artificial reef Inc.". Questa società ha sede a Pensacola, in Florida e, sul suo sito internet, sostiene di aver progettato e prodotto il miglior modulo per scogliere sommerse. Questi moduli sono prodotti in tre taglie, 1 m, 2 m e 3,5 m di altezza, sono realizzati in calcestruzzo armato, sono garantiti "a prova di uragano", risultano altamente attrattivi nei confronti dei pesci. La denominazione commerciale di questi moduli, che sono peraltro componibili, anche come elementi di una sorta di scatola cinese, è Fish-haven®, marchio registrato che, tradotto dall’inglese, vuol dire rifugio per i pesci. Come mostrano le seguenti figure, la loro funzione di richiamo-rifugio pare funzionare validamente, ma al momento non si dispone di risultati di ricerche relative a tali strutture. Un altro tipo di modulo, disegnato principalmente per il ripopolamento del corallo e la estensione della barriera corallina naturale, su base artificiale, è quello prodotto dalla fondazione americana "Reef-ball Foundation". Moffit et al. (1989) hanno usato tubi in calcestruzzo, aventi diametro interno di 30 o 40 cm, tenuti insieme con delle fasce di acciaio inossidabile o di polipropilene, in modo da formare delle piccole piramidi di 3 o 6 tubi ciascuna. A Shimamaki, in Giappone si è sperimentato l’uso di cilindri in calcestruzzo, muniti di ampi fori sulla superficie. In Italia, prevale l’uso di moduli di forma cubica, aventi dimensioni che vanno dai 2 a 1,2 m di spigolo, come, ad esempio, quelli usati per le barriere di Loano, Senigallia e Taranto. Altri ricercatori hanno preferito l’uso di piccoli blocchetti di calcestruzzo (40 x 20 x 20 cm), messi insieme a comporre 8 unità di forma approssimativamente conica, alte da 1 m a 4 m, e disposte su di un’area di 30 m x 10 m. Vi sono, infine, altri tipi di moduli, composti da più materiali, costituiti da unità alveolari, aventi volumi di circa 12 m3, che sono utilizzati nelle acque delle Baleari. Circa l’importanza e l’efficacia del design di un modulo, sono stati condotti numerosi studi, che hanno approdato a conclusioni anche assai diverse tra loro. Ci sono studi che si propongono di dimostrare, addirittura, la particolare preferenza di alcune specie per determinati tipi di strutture. Le disposizioni Le diverse disposizioni, che i ricercatori danno ai moduli, sono strettamente correlate al tipo di fondale ed agli effetti che si vogliono ottenere. Un fondale privo di scogliere naturali, con praterie di Posidonia e soggetto alla pesca a strascico, va protetto con strutture disposte in modo da creare delle "oasi" di ripopolamento, in modo da realizzare dei veri e propri rifugi, o delle nursery di ripopolamento. Le oasi, inoltre, vanno a loro volta protette dalla pesca abusiva a strascico, con dei massi, posti intorno ad esse in modo da formare una sorta di reticolo antistrascico. Forse più che di disposizioni, in senso stretto, sarebbe meglio parlare più generalmente degli accorgimenti finalizzati ad ottenere dalla struttura il massimo delle sue potenzialità. Questo risultato appare conseguibile, sulla base degli studi effettuati, posizionando le barriere a profondità adeguate e soprattutto immergendo volumi tali da poterle rendere realmente produttive. Le dimensioni Le dimensioni di una scogliera sottomarina, e l’influenza di esse sull’abbondanza delle specie e degli individui, sono ancora oggi oggetto di studio. Molti studiosi indicano in 50.000 m3 il volume minimo capace di far conseguire risultati professionali e reali benefici in fatto di produzione. Altri segnalano il punto critico di 4000 m3 come valore minimo per l’innesco di una catena trofica, capace di incrementare la produzione in modo sensibile. Altri studiosi, piuttosto che di volume immerso, parlano di estensione sul fondale, e fissano un range compreso tra 25.000 e 50.000 mq, nel quale le barriere devono collocarsi, al fine di raggiungere l’equilibrio e consentire la propagazione degli effetti. Va detto anche che le dimensioni condizionano l’attrazione delle specie migranti o pelagiche. In particolare, l’altezza dal fondo di una scogliera agisce come stimolo acustico e visivo per le specie pelagiche e come riferimento spaziale per le specie migranti. Profondità dell’installazione Anche quello della profondità è un fattore capace di incidere significativamente sui risultati. Le scogliere sommerse finora costruite sono state poste a profondità che variano da 7 m sino a 117 m. Negli USA, le barriere sono sempre poste al largo ed in acque profonde (solo poche si trovano vicino alla costa). Comunque, la struttura dovrebbe essere posizionata ad una profondità sufficiente a minimizzare il rischio dei danni causati da tempeste marine o forti mareggiate, ma, allo stesso tempo, essa deve rimanere accessibile agli operatori subacquei, per consentire le operazioni di monitoraggio, manutenzione, ecc. Altro fattore positivo, caratteristico di taluni fondali costieri, o comunque non troppo profondi, è quello della maggiore quantità di nutrienti e di particellato organico, derivante dagli apporti dei corsi d’acqua, che potrebbero essere presenti lungo la costa. I luoghi ideali per la realizzazione di scogliere sommerse Dal punto di vista bionomico l’ambito d’elezione, nel quale collocare le scogliere sommerse, è quello infralitorale, cioè l’area in cui è esercitata in prevalenza la piccola pesca con attrezzi fissi. È questa l’area che si suole definire fascia o banda costiera. Essa, dal punto di vista delle norme sulla pesca, è compresa entro le tre miglia dalla costa o, all’interno di queste, nelle zone di profondità non superanti l’isobata di 50 m. Dal punto di vista ecologico, la fascia costiera è caratterizzata dalla varietà di ambienti marini (particolare è il biotipo della prateria di Posidonia) e dalla variabilità dei parametri fisico-chimici e biologici. Nella fascia costiera si producono, principalmente, sia l’input energetico (cui contribuiscono nutrienti e particellato organico) che costituisce la base della produttività marina, sia l’organicazione dei sali minerali attivata dai produttori primari (fitoplancton e fitobenthos). L’area è, tra l’altro, quella a maggior penetrazione di luce. È nelle aree costiere che si può verificare un accumulo di energie che l’uomo deve ingegnarsi (ed impegnarsi) di riciclare e trasformare in biomassa utilizzabile. Ciò si può fare mediante le iniziative di maricoltura del largo. Dal punto di vista delle risorse e della pesca, la fascia costiera è l’area dove gran parte delle specie neritiche si riproduce e compie il primo accrescimento e dove la piccola pesca (pesca costiera locale) esercita la propria attività, con tutta la varietà di mestieri che la caratterizza.